Motori primi, energia e globalizzazione – 3 – Il fuoco ed il calore

Carbone 1

di Mario Giardini

Per centinaia di migliaia di anni il fuoco è stato considerato di volta in volta un dono degli dei. Una refurtiva. Perfino una divinità. I greci si posero le prime domande a noi pervenute sulla sua natura. Democrito parlava di atomi di caldo e di freddo.

C’era chi, come Empedocle, lo considerava un elemento fondamentale dell’universo, avente una natura materiale. Concezione materialistica che nel Rinascimento alcuni ripresero, come Galileo; ed altri misero in dubbio, come F. Bacone.

Cartesio e poi Newton iniziarono quella che verrà poi definita teoria cinetica a proposito del calore: un moto agitatorio delle particelle costituenti la materia.

Nell’ultimo quarto del ‘700 Lavoisier, Laplace, Poisson ed altri introdussero una nuova nomenclatura chimica. Così, termini come ossigeno, carbonio, reazione chimica entrarono nel vocabolario dei filosofi naturali e nel linguaggio comune. L’aria “infiammabile” divenne l’idrogeno. Il solfato di rame prese il posto del “vetriolo di Venere”. E Antoine Lavoisier introdusse il termine calorico nel suo Trattato elementare di Chimica, 1789.

Con ciò il flogisto, una sorta di etere prodotto dalla combustione, e sul quale la totalità della comunità scientifica per decenni prima di Lavoisier aveva unanimemente convenuto come spiegazione del fenomeno della combustione, divenne una delle tante idee bizzarre relegate nel passato della scienza.

Il ché la dice lunga sul valore che il “consenso” degli scienziati può avere sulla validità (o invalidità) di una teoria scientifica allorché i fenomeni non sono interamente conosciuti: quasi zero.

Ma il calorico in sé e per sé era, concettualmente, solo un flogisto di nuovo genere: una sorta di materiale composto di particelle assai più fini di quella che compone la materia ordinaria. Una specie di liquido, auto-repulsivo, capace di penetrare nel ghiaccio e scioglierlo per farlo diventare acqua. E di far diventare l’acqua, vapore, se aggiunto in quantità sufficiente.

Nei decenni seguenti si inseguirono due teorie: quella materialistica esemplificata dal termine “calorico” (Poisson, Dalton, Avogadro) e quella cinetica. Ma fu infine il lavoro di Joule che mostrava come lavoro meccanico e calore fossero equivalenti tra di loro, forme diverse di quella cosa che oggi chiamiamo energia, a dare un supporto definitivo al modello cinetico.

Nel 1850 Clausius finalmente pubblicò la memoria che fece cessare le discussioni. Egli dimostrò che la teoria cinetica è perfettamente in accordo con il primo ed il secondo principio della termodinamica, e diede una definizione matematica del primo principio in cui al primo membro della sua equazione compare il calore.

In sostanza, la teoria cinetica del calore afferma che l’energia termica è anch’essa energia meccanica. Ed è associata al perenne moto delle molecole e degli atomi all’interno dei corpi.

La visualizzazione più nitida consiste nell’osservare cosa accade ad un gas contenuto in un recipiente chiuso allorché gli si fornisce calore: il moto sempre caotico delle molecole diventa più frenetico. Aumenta la loro velocità media. Maggiore la quantità di calore fornita, maggiore la velocità media, cioè l’energia cinetica delle molecole, che è proporzionale al quadrato della velocità e alla massa.

Era nata una nuova branca della fisica: la termodinamica. Un grande passo avanti verso la scienza, e, successivamente l’ingegneria, per come le conosciamo oggi.

Da un certo punto di vista gli uomini si dividono in due categorie, in passato (ed in parte anche oggi) assai distanti fra di loro. La prima è quella che di fronte a un dato fenomeno fisico, come quello del calore, si pone la domanda: “come e perché?“. Trovata una risposta che appare ragionevole allo stato delle cose, si accontenta. E procede oltre.

La seconda categoria invece si chiede “come faccio a controllarlo e come posso utilizzarlo per un fine pratico?” Chi pone questo tipo di domande lo fa per curiosità, passione, interesse, egoismo. Togliete le ultime due motivazioni, per quanto esecrabili siano in talune loro conseguenze, e troverete che le prime due si affievoliscono al punto di svanire quasi totalmente.

E’ ovvio che questa seconda categoria di uomini non se ne sta con le mani in mano ad aspettare le pensose risposte della prima per risolvere i problemi della vita quotidiana. In aggiunta, non si accontenta delle risposte che trova ai propri quesiti, perché, una volta trovato il modo di sfruttare a qualche fine pratico un certo fenomeno, si ingegna l’intera vita per migliorare ciò che funziona già.

Infatti, al tempo in cui Clausius pubblicò la sua memoria si contavano a decine di migliaia le fabbriche che generavano l’energia meccanica di cui avevano bisogno per la fabbricazione dei propri prodotti con motori a vapore stazionari. Che funzionavano consumando carbone. Cioè, utilizzando il calore per convertire l’acqua in vapore, che a sua volta muovendo su e giù uno stantuffo, trasforma la sua energia termica in energia meccanica.

Nel 1833 il Royal William, combinazione di navigazione a vela e a vapore, aveva già attraversato l’Atlantico viaggiando dal Quebec a Londra. Sette anni dopo, le inefficienti ruote a pale erano state sostituite da eliche (invenzione dovuta a Ericsson e Smith).

S’erano già costruiti migliaia di chilometri di ferrovie. E se ne continuavano a costruire: nel 1845, in Inghilterra e Galles, si lavorava alla posa di oltre 10.000 km di binari. Perfino Ferdinando II di Borbone s’era regalato il suo giocattolino a vapore: la Napoli – Portici, 1839, sette chilometri sette. Giocattolino che ancora oggi, al sud, propagandano come segno inequivocabile di società tecnologicamente più evoluta di quella dei piemontesi conquistatori.

Tutto era cominciato un secolo e mezzo prima. Ed era dovuto ad un oscuro ironmonger, cioè a un fabbro, di nome Thomas Newcomen, ed al suo socio e aiutante, John Calley.

Fu il primo ad avere successo nel trasformare il calore in energia meccanica: inventò il motore a vapore. Anno 1712, luogo: Conygree Coalworks, nelle vicinanze di Dudley, nelle West Midlands. Ancora una volta la tecnologia precedette la scienza.

Ma la macchina di Newcomen non avrebbe poi avuto la diffusione che ebbe senza i contributi necessari di altri ingegneri nel campo della produzione del ferro e dell’acciaio. Abraham Darby, nel 1709, compì un passo avanti gigantesco: produsse ghisa utilizzando il carbone come combustibile della sua fornace.

segue

pubblicato su www.thefrontpage.it

il 30.1.2015

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