La vera storia della Exxon Valdez

exxon valdezdi Mario Giardini

Uno dei più gravi versamenti in mare di petrolio avvenne il 24 marzo 1989, quando la Exxon Valdez incagliò nella baia Prince William Sound, Alaska. Fuoriuscirono 10,9 milioni di galloni di petrolio grezzo dei 53 milioni ch’erano a bordo. Un gallone americano equivale a 3,785 litri. Perciò, circa 41 milioni di litri, o, se si preferisce, 41.000 metri cubi. In totale, si stimò che circa 1300 miglia di costa, non continue, furono inquinate. Di esse, 200 furono classificate “da forte a moderatamente” inquinate. Le rimanenti, “leggermente” o “molto leggermente”.

Una serie di fattori naturali contribuì a rendere più grave l’incidente. Due giorni dopo, il 26, una tempesta, con venti fino a 70 Kmh, disperse il petrolio e lo convertì parte in una sorta di “schiuma” e parte in grumi di catrame, spingendo il tutto su una linea di costa più lunga. Inoltre, il periodo dell’anno era sfavorevole (fine inverno), con fluttuazioni di marea fino a 6 metri. Ciò portò il petrolio molto più in alto, aumentando la fascia inquinata. Nel caso di rocce, il petrolio si depositò in superficie. Sulle spiagge, penetrò in profondità. Venti, maree e tempeste lo spostarono costantemente, rendendone assai difficile il rilevamento e la rimozione.

Undicimila uomini, 1400 navi e 85 aerei furono impiegati nell’opera di disinquinamento, che cominciò subito (meno di tre ore dopo l’incidente) e si protrasse per tre anni di seguito, fino a tutta l’estate del 1991. Tutte le spese furono a carico della Exxon. Un tribunale dell’Alaska la condannò ad una multa di 150 milioni di dollari per “crimine ambientale” (environmental crime fine). Tuttavia, accertata la sua piena ed efficace collaborazione nell’opera di disinquinamento, e la totale assunzione di responsabilità in sede civile, il tribunale decise, autonomamente, di condonare 125 milioni. La Exxon accettò di pagare 900 milioni di dollari per responsabilità civile in dieci rate annuali, in aggiunta ai 300 milioni pagati immediatamente. Il costo totale per i lavori di disinquinamento fu di  2.200 milioni di dollari. Infine, 1 000 milioni di dollari furono pagati, a vario titolo, allo Stato dell’Alaska e al governo federale. Dunque il conto finale, per Exxon, fu di 4.425 milioni.

Cosa ne è stato delle coste e della fauna, marina e terrestre? Nel 2004, quindici anni dopo l’incidente, fu effettuato uno studio approfondito, dal quale emerse che il totale di specie e risorse colpite era di 30. Lo studio le distribuì in 5 “classi”. Specie e risorse non recuperate: 3, fra cui l’anatra arlecchina. Situazione ignota (o per mancanza di dati o di conoscenze sulla vita delle specie colpite): 5. Recuperate completamente: tutte le risorse archeologiche, e 7 specie. In via di recupero: aree sedimentarie e naturali, e 7 specie. Le attività economiche furono definite in via di “recupero”, in quanto alcune di esse, come la pesca, dipendevano da specie marine non ancora completamente recuperate. Recupero, in questo contesto, significa che l’habitat, la vita e la riproduzione delle specie non è distinguibile da quella naturale. In altri termini: tutto è tornato come prima.

Da un disastro del genere le persone oneste (e ce ne sono) traggono sempre molte lezioni.  Ad esempio, che alcuni tentativi di disinquinamento condotti da personale non esperto o con metodi inadeguati o errati possono essere perfino più dannosi del petrolio (dilettantismo di neofiti idealisti, quelli che si precipitano con secchiello e paletta a dar una mano). O sbagli di professionisti, come l’uso errato di solventi chimici per dissolvere la macchia. Fra i problemi più seri, quello del petrolio che penetra in profondità e che può tornare a galla in momenti e posti insperati. La lezione è:  indirizzare i primi interventi alla protezione delle spiagge.

La navigazione in quel tratto di mare era ed è pericolosa. Ma oggi il traffico viene monitorato via satellite ventiquattro ore al giorno. La Exxon Valdez, al momento dell’incidente, era in perfetta efficienza. Aveva deviato dalla rotta usuale per evitare degli icebergs. Vi si doveva tornare in un punto preciso (prima di quello di impatto), e l’ordine era stato impartito dal capitano al terzo ufficiale, Cousins, e al timoniere Claar in maniera chiara ed inequivocabile. Claar venne sostituito per fine turno da un altro timoniere, di nome Kagan. Per ragioni mai chiarite, il terzo ufficiale Cousins e Kagan non riportarono la nave in rotta, come ordinato dal capitano Hazelwood, che nel frattempo era andato a riposare.

Il National Transportation Safety Board condusse una investigazione approfondita ed esauriente. Individuò una catena composta da cinque cause principali, che, come sempre, sono da attribuire più  agli uomini che alle macchine. Prima: Cousins era affaticato e sovraccarico di lavoro. Seconda: Cousins non vigilò sufficientemente sulla rotta che veniva percorsa, probabilmente a causa di ridotta capacità fisica dovuta ad alcool (cioè, forse era ubriaco) Terza: la Exxon non istituì procedure per sorvegliare adeguatamente le azioni dell’ufficiale in comando; l’equipaggio fu considerato insufficiente, dunque sovraccarico di lavoro e affaticato. Quarta: la Guardia costiera americana non aveva un sistema efficace di controllo del traffico navale; dunque non si accorse che la nave andava dritta verso gli scogli. Quinta e ultima: mancava un servizio efficiente di pilotaggio e di scorta negli stretti di Valdez.

pubblicato su www.thefrontpage.it

il 5.7.2010

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