Fukushima 4 – Un’impari e disperata battaglia


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E’ terribile dover combattere alla cieca una battaglia per evitare un’incidente che può risultare gravissimo per le persone e le cose.

E’ ciò che accadde a Fukushima Daiichi.

Raffreddare i reattori, e controllare l’efficacia di ogni attività, nonché monitorare, individuare e capire la gravità dei guasti alla centrale prodotti dal terremoto e dallo tsunami, dipendeva quasi esclusivamente dalla disponibilità di energia elettrica.

Che però non era disponibile, se non in misura tragicamente inadeguata.

Rottami, detriti e oscurità resero difficile accedere alle stanze di controllo e muoversi all’interno dell’impianto.

Ricorrere a mezzi di fortuna, ad esempio l’uso di autobotti dei vigili del fuoco per pompare acqua sui reattori, fu difficilissimo nelle prime e cruciali ore che seguirono il terremoto e lo tsunami.

Si verificò una estrema penuria di mezzi, impegnati duramente in mille diversi posti del territorio.

Gravissime conseguenze ebbe la rottura e/o l’indisponibilità di apparecchi ausiliari necessari alle operazioni di emergenza, quali collegamenti e quadri elettrici, tuberie, dispositivi di controllo, pompe ed altro.

Tutte le postazioni di rilevamento della radioattività erano state distrutte dallo tsunami. Si disponeva solo di contatori portatili. Per molti giorni, ci si mosse all’interno di un ambiente potenzialmente assai pericoloso, ma di cui fu impossibile, se non per brevi momenti, misurare la pericolosità.

Un raffreddamento di fortuna fu allestito per i reattori 2 e 3, deviando il vapore disponibile nei reattori per alimentare le pompe. Ma il vapore si esaurì in brevi ore e così l’energia delle batterie dell’unità 6.

A questo punto, inesorabilmente, la temperatura nei nuclei continuò a salire.

La catena di eventi che si instaura in tali circostanze è molto complessa. Vediamone in sintesi, e assai grossolanamente, alcuni degli aspetti principali.

L’aumento di temperatura nel nucleo del reattore, causata dall’assenza di raffreddamento, provoca un aumento nella produzione di vapore. Le valvole di sicurezza in parte riducono l’aumento di pressione, scaricando all’esterno del reattore, ma all’interno del edificio di contenimento, il vapore in eccesso.

Perdurando la mancanza di raffreddamento, ciò si rivela solo un palliativo. Quando la temperatura diviene sufficientemente elevata, l’acqua reagisce con il metallo delle barre del reattore producendo idrogeno. Che si mescola con altri elementi volatili, già presenti, come lo iodio (temperatura di sublimazione 174 °C) ed il cesio (671 °C), e, naturalmente, il vapore acqueo.

L’idrogeno, in presenza di ossigeno, cioè di aria, e di calore, può esplodere. E’ ciò che accade alle 15.36 del giorno 12, nel reattore 1, 24 ore dopo lo tsunami.

L’esplosione scoperchiò la struttura di contenimento del reattore. Ciò che all’interno si trovava allo stato gassoso, e dunque anche i materiali radioattivi volatilizzati (iodio 131, cesio 137, ecc) dal nucleo, si diffuse nell’atmosfera.

Ad un certo punto, se le barre del reattore non sono più coperte da acqua, e perdura l’assenza di raffreddamento, la temperatura può spingersi anche fino a 2800 °C. Nessun materiale può mantenersi allo stato solido a tali temperature.

Tutti fondono e si mescolano in una “poltiglia” che viene chiamata corium. Il corium finisce sul fondo di acciaio che contiene il nucleo. Se nel reattore vi è ancora dell’acqua, nel suo percorso in discesa può anche solidificare in parte, ed in parte raffreddarsi.

L’acciaio, anche il migliore, però, fonde intorno ai 1500 °C. Quindi se la temperatura del corium arrivato sul fondo è superiore, e la massa fusa sufficiente, c’è una concreta possibilità che scaldi il contenitore in acciaio, che ha uno spessore da 3 a 30 cm, a seconda del tipo di reattore, al punto di perforarlo. Così, il corium fuoriesce dal reattore, e finisce all’interno dell’edificio di contenimento.

Tra il corium, e l’ambiente esterno, a questo punto ci sono solo le pareti in cemento armato dell’edificio di contenimento. A Fukushima lo spessore di tali pareti è di 2,5 metri. Ed ha resistito.

Le analisi fatte finora dai tecnici mostrano un’erosione della parete intorno ai 40 – 60 cm. Erosione benefica: ha contribuito a raffreddare il corium.

E’ bene ricordare che a Chernobyl non c’era alcun edificio di contenimento. A Fukushima ed a Three Mile Island, invece, sì: effetto della differente, e più avanzata, normativa di sicurezza occidentale.

Se l’edificio di contenimento, come è accaduto a Fukushima causa esplosione dell’idrogeno nei reattori 1 e 2, non è rimasto integro, il corium fuoriuscito continua a irradiare e a perdere elementi radioattivi volatili (iodio, cesio), che continuano a fluire nell’atmosfera. Fino ad esaurimento. O fino a quando la temperatura scende finalmente al di sotto del valore di sublimazione.

Questo copione, in tempi diversi, si è ripetuto anche nei reattori 2 e 3. Con una differenza: nel reattore 3, l’idrogeno non esplose. Ci fu un’esplosione, invece, nell’edificio del reattore 4, che era fuori servizio. E’ assai verosimile che l’idrogeno prodotto nel nucleo del reattore 3 si sia trasferito all’edificio del reattore No 4. E lì abbia detonato.

Alle perdite di radioattività descritte si aggiunsero quelle legate all’acqua che finì in mare in diverse riprese, a causa della necessità di raffreddare i reattori e alle misure di emergenza che furono prese per ridurre o rallentare i danni.

Gli sforzi per riportare sotto controllo Fukushima Daiichi durarono mesi. Solo il 16 dicembre 2011, otto mesi dopo il terremoto e lo tsunami, fu possibile dichiarare lo stato di “cold shutdown”.

E’ bene dire che il governo giapponese prese decisioni immediate per l’evacuazione delle zone a rischio.

Già alle 8.50 di sera di quel tragico 11 marzo, cioè poco più di cinque ore dopo lo tsunami, fu diramato il primo ordine, che riguardava la fascia di 2 km intorno alla centrale.

Altri seguirono. Nelle immediate vicinanze della centrale, in siti spazzati via dal terremoto e dallo tsunami, l’ordine raggiunse probabilmente poche persone. Tutte, comunque, si trovarono in grave difficoltà durante l’evacuazione.

In tutto, furono trasferite oltre 100 000 persone. Che in larga parte ancora non sono tornate a casa.

Sul divieto è difficile opinare. Troppi dati discordanti, che paiono solo al servizio della tesi di chi li pubblica. E troppa emotività, spesso irrazionale, nelle valutazioni. Il principio di cautela la definirebbe una misura saggia. Ma potrebbe anche essere, semplicemente, un pararsi le terga da parte dei politici, che non brillarono per trasparenza e onestà nei giorni terribili che seguirono allo tsunami. E che, come sempre, e ad ogni latitudine, corrono a rifarsi una verginità o a crearsi nuove posizioni.

Una cosa è certa: ci sono contratti assai lucrosi, per decine di miliardi di dollari, per le aziende che si occupano della decontaminazione. E sono i politici che devono distribuirli.

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